Riscoprire il valore della memoria con il libro "I Giusti" di Jam Brokken
di Federico Canullo
In questo tempo strano, sospeso quasi, tra voglia di ribellarsi all'inevitabilità della situazione ed il timore, la paura per la sofferenza e l'ignoto, ci può aiutare condividere ricordi e testimonianze di "coraggio normale", da parte di tante persone, donne e uomini, messi alla prova dalla vita, nel quotidiano e chiamati ad essere profondamente umani e, per questo, in fondo, davvero figli di Dio.
L'occasione ci viene fornita dalla ricorrenza - ma chi se ne ricorda in questo frangente? - del 6 marzo "Giornata dei Giusti", cioé la giornata di tutti coloro che hanno agito per salvare i perseguitati nella storia moderna, ricorrenza istituita nel 2012 dal parlamento europeo e recepita da quello italiano nel 2017 (per chi volesse si può leggere un bell'articolo in proposito sulla pagina dell'Avvenire del 5 marzo).
Sul valore della memoria l'associazione diocesana, ed in particolare il settore adulti, sta riflettendo da diversi mesi e si appresta a proporre l'iniziativa "Abitare le vie della memoria", che dovrebbe avvenire - ma il condizionale è d'obbligo nella situazione di emergenza in corso - in concomitanza con il 75simo della fine della seconda guerra mondiale nel nostro paese e la sua liberazione.
Sollecitato da queste riflessioni ho trovato davvero sollievo nelle pagine di Jan Brokken, scrittore e giornalista olandese, del suo ultimo lavoro "I giusti" (edito da Iperborea ad inizio di quest'anno).
Si tratta del racconto, ai limiti del romanzesco, delle scelte di Jan Zwartendijk e Chiune Sagihara, rispettivamente come console dei Paesi Bassi e del Giappone a Kaunas, capitale della Lituania nel 1939 - al posto di Vilnius, in quel momento in territorio polacco - nel rilasciare visti a migliaia di ebrei cechi, polacchi e tedeschi verso l'isola di Curacao, territorio olandese nelle Antille, attraverso il Giappone, creando così un'insperata via di fuga e di salvezza alle soglie della soluzione finale.
La lettura, gradevolissima e coinvolgente, ci fa scoprire da un lato la "banalità del coraggio", per così dire, di Jan Zwartendijk che, da semplice imprenditore (dirigente Philips), non riesce a non farsi coinvolgere dalle sofferenze di chi gli vive accanto sapendo cogliere l'occasione che gli è offerta con il posto di console ad interim di non voltare lo sguardo dall'altra parte: "Credo che negli anni trenta e all'inizio degli anni quaranta molte persone si rifiutassero di vedere l'incombere dell'olocausto. Si lasciavano scivolare addosso le informazioni frammentarie in cui si imbattevano, come se fossero sporcizia in un fiume in piena. A non guardare da vicino, l'acqua sembrava ancora abbastanza pulita. Se sentivano qualcosa, si voltavano subito dall'altra parte, oppure si concentravano su un diversivo piacevole. Anche chi era molto vicino al centro del potere girava le spalle e si tappava le orecchie.".
Dall'altro scopriamo la profonda umanità dell'apparentemente scostante Chiune Sagihara, diplomatico giapponese di lungo corso, che arriva a sacrificare la carriera e perfino a rischiare la vita pur di salvare quanti più sconosciuti possibile da una morte certa, ma senza riuscire a vedere nulla di straordinario in questo, semplicemente il proprio dovere: "In fin dei conti ho preso la mia decisione da essere umano. Ci ho pensato bene per una notte intera. Quello che avrei fatto non era forse corretto per un diplomatico, ma non potevo abbandonare al loro destino quelle migliaia di persone che dipendevano dal mio aiuto. In realtà non ho fatto nulla di eccezionale: solo ciò che dovevo fare".
Una lettura che aiuta a "ricentrarsi", a riflettere sul valore della fratellanza e dell'empatia e sul bisogno di lasciarsi "coinvolgere"; una bella cura contro il delirio di individualismo di cui è ammalato il nostro tempo.
Dall'altro scopriamo la profonda umanità dell'apparentemente scostante Chiune Sagihara, diplomatico giapponese di lungo corso, che arriva a sacrificare la carriera e perfino a rischiare la vita pur di salvare quanti più sconosciuti possibile da una morte certa, ma senza riuscire a vedere nulla di straordinario in questo, semplicemente il proprio dovere: "In fin dei conti ho preso la mia decisione da essere umano. Ci ho pensato bene per una notte intera. Quello che avrei fatto non era forse corretto per un diplomatico, ma non potevo abbandonare al loro destino quelle migliaia di persone che dipendevano dal mio aiuto. In realtà non ho fatto nulla di eccezionale: solo ciò che dovevo fare".
Una lettura che aiuta a "ricentrarsi", a riflettere sul valore della fratellanza e dell'empatia e sul bisogno di lasciarsi "coinvolgere"; una bella cura contro il delirio di individualismo di cui è ammalato il nostro tempo.
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