Una storia di lotta e d'amicizia.
(Daniela Meschini)
Con il rammarico per non aver potuto vivere insieme l'evento che con cura l'AC diocesana in collaborazione con l'ANMIG aveva preparato per i 75 anni della Liberazione, vogliamo onorare comunque la ricorrenza con una delle storie che, grazie alla competenza ed alla pasione della nostra socia Daniela, abbiamo potuto conoscere.
La storia di Livio Cicalè si intreccia con quella di un altro martire della Resistenza, Giuseppe Biagiotti. I due ragazzi si conoscevano dall’infanzia: entrambi nati in famiglie disagiate, avevano coltivato il loro rapporto d’amicizia all’interno dell’orfanotrofio maschile di Macerata, retto da Don Primo Fratini.
Nel settembre del 1943, Livio era un allievo finanziere della Guardia di Finanza mentre Giuseppe doveva presentarsi per il servizio militare. Entrambi decisero di non rispondere alla chiamata alle armi della neonata Repubblica di Salò e confluirono dapprima nel gruppo partigiano della zona di Montenero di Cingoli, poi nel gruppo “201 Volante” del Tenente Emanuele Lena, detto “Acciaio”. La strategia di lotta partigiana del gruppo consisteva in colpi di mano, basati sul fattore sorpresa, con azioni mirate e fulminee.
Livio Cicalé |
Il 15 aprile del 1944, i due giovani, Livio e Giuseppe, parteciparono ad un’azione che aveva l’obiettivo di catturare un noto gerarca fascista maceratese, tendendogli un’imboscata sulla strada di ritorno a Macerata. L’attacco era stato studiato nei minimi particolari, ma qualcosa andò storto. Alcuni fascisti riuscirono a sfuggire ad un posto di blocco e diedero l’allarme. Ben presto, i partigiani furono attaccati da un folto numero di fascisti, con una potenza di fuoco schiacciante.
Nell’intensa sparatoria che ne seguì, Giuseppe fu raggiunto da una raffica di mitragliatrice alla gamba, che lo fece cadere a terra. Il suo amico, Livio, resosi conto dell’accaduto, anziché ripiegare, accorse in suo aiuto, mentre era esanime a terra in una pozza di sangue. Si rifiutò di lasciarlo lì, se lo caricò sulle spalle per riprendere il cammino e cercar riparo al di là del fiume Chienti, ma i due non riuscirono mai a guadarlo, furono catturati e condotti alla caserma Corridoni di Macerata.
Dalla sera del 15 aprile al successivo 17 aprile, per i due giovani partigiani furono ore di sevizie e di martirio, ma nulla rivelarono dei loro compagni. La mattina di lunedì 17, persistendo nel loro ostinato mutismo, i due vennero tradotti al campo di internamento di Sforzacosta, dove vennero fucilati.
Livio aveva chiesto di morire abbracciato all’amico, ma la richiesta non fu accettata. Il comandante del plotone d’esecuzione ordinò ai due di scavarsi da soli la fossa. Avevano da poco compiuto 19 anni.
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