Una riflessione per il giorno dell'incarnazione.
da Gioba.it |
Beit lehem, casa del pane in ebraico.
Sembra quasi il fortunato
slogan di un pubblicitario di successo dei nostri giorni per il lancio sul
mercato di una nuova boutique alimentare.
In realtà è l'emblema delle contraddizioni che, da sempre,
accompagnano la vita dell’uomo: una casa - fatta per ospitare - del pane - fatto
per essere spezzato e sfamare - e il racconto di una negazione di accoglienza -
terribile in una cultura, quella del vicino oriente, per la quale l’ospitare è
un dovere sacro.
Una famiglia di rifugiati che vaga nella notte alla ricerca
di un rifugio, di una casa, e trova tutte porte sbarrate e - per certi versi
cosa ancora più triste - più dalla frettolosa indifferenza che non da vero e
proprio malanimo.
Se non avesse più di 2000 anni il racconto ben si sarebbe
potuto ambientare ai nostri giorni.
Frettolosa indifferenza che fa dimenticare la prima
vocazione dell’uomo, il suo essere “precario” e non signore su questa terra,
ospite e non padrone.
A ridosso del Natale di quest’anno mi sembra una riflessione
quanto mai attuale; tante notizie, vicine - con l’inevitabile abbattimento di
alcune abitazioni a rischio di crollo a pochi chilometri da Macerata - e più o
meno lontane - con le tante, troppe storie di migranti privati di ogni speranza
- sottolineano questa patologica amnesia che finisce per travolgerci tutti:
siamo ontologicamente chiamati ad aprirci all’accoglienza ed alla prossimità,
che possiamo, sì, rifiutare, ma a prezzo di una parte del nostro stesso “essere
umani”.
Ecco: che questo Natale 2018 possa davvero prenderci allo
stomaco, attraverso il paradosso di un Dio che deve farsi bambino, sfollato e
migrante, per ricordare a ciascuno di noi cosa vuol dire “essere umano”.
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